a quest'ora, era lunedì. Stavo tornando a casa dall'ospedale, dove ti ho vista viva per l'ultima volta. Anche se forse la vita - come la intendo io - ti aveva già abbandonato.
Poi la telefonata.
Un numero sconosciuto, ma il prefisso era quello dell'ospedale. Una voce di donna. "la sua mamma è mancata, cinque minuti fa. Vuole tornare a vederla?"
No, grazie.
Tanto non avrebbe fatto alcuna differenza.
L'unica differenza fra il prima e il dopo era il respiro.
Presente.
Assente.
Te ne sei andata, nel giorno della festa del papà. Avevi iniziato ad andartene quando se n'è andato lui, si era portato via anche la tua voglia di vivere. E forse un po' anche la mia.
Un amico mi disse, qualche giorno dopo: "se è l'amore a ridurti così, io spero di non innamorarmi mai in questo modo".
Avevi smesso di uscire di casa, avevi smesso di fare tutte quelle cose che hai sempre fatto, tu, sempre attiva e in movimento, sempre con mille cose da fare, le tende, la casa, i fiori, il giardino, la cucina, la bicicletta, le passeggiate, la pettinatrice, la palestra, la mamma.
Sono stati anni difficili, gli ultimi.
Io, che non riuscivo ad accettare che una persona potesse annullarsi ed annientarsi in questo modo, perché è inutile, razionalmente non lo accetti, per quanti sforzi tu possa fare. Tu, sempre più apatica, avevi smesso anche di parlare, rispondevi a monosillabi, non mi guardavi nemmeno più negli occhi. Quelle rare volte che ancora riuscivo a farti sorridere per una delle tante cazzate che ti dicevo mi si spezzava il cuore.
E io che mi chiedevo quanto ancora avresti potuto resistere. Quanto ancora avrei potuto resistere io, egoisticamente.
Fino a quel sabato sera.
Ero andata al cinema, come sempre. "Magnifica presenza".
Sono tornata a casa, e, dopo aver messo l'auto in garage, ti ho vista.
Distesa, sulle scale, rantolante, immobile, incosciente.
Una pozza di sangue dietro la tua testa.
Devo aver urlato così forte che ho svegliato anche i vicini. Ma non ne ho memoria, io non me lo ricordo, di aver urlato.
La chiamata al 118, io che andavo avanti e indietro tra le scale e la veranda, dopo averti tolto il sangue dalla faccia. Da quanto tempo eri lì?
Aspettavo, tremavo e fumavo, i medici dell'ambulanza che hanno tentato di rianimarti per più di un'ora.
La corsa all'ospedale.
Io in auto. Sono arrivata prima dell'ambulanza, che quando è arrivata non aveva nemmeno più le sirene accese.
L'ingresso al pronto soccorso, il codice rosso, l'attesa.
Un primo colloquio con i medici: "la situazione è disperata".
"Attenda qua nella saletta, non stia fuori con tutti gli altri."
L'attesa. L'angoscia. La paura.
Un secondo colloquio, parole che rimbombavano fino a quel: "non c'è più niente da fare".
Le lacrime. Sono arrivate solo in quel momento.
Il ritorno a casa.
L'attesa, senza nemmeno la speranza.
Io non lo so se lo sapevi, anche negli ultimi tempi, che ti volevo bene, che te ne ho sempre voluto.
Anche se forse non riuscivo a dimostrartelo come avrei dovuto.
Non ci sono mai riuscita.
Non ci riesco mai, io.