13 set 2016

Un padre, una figlia (Bacalaureat)

Prendi una famiglia borghese della Romania dei giorni nostri: un marito (Romeo), una moglie (Magda), una figlia. Lui è un affermato medico, lei una bibliotecaria amareggiata, la figlia una studentessa modello, che grazie ai suoi risultati scolastici ha vinto una borsa di studio per poter frequentare l'università in Inghilterra, ma ovviamente prima dovrà sostenere l'esame di maturità. 
Ma, pochi giorni prima dell'inizio degli esami la ragazza, Eliza, subisce una misteriosa aggressione, che le procurerà un leggero stato di choc e una lussazione al polso.
Il padre inizia a veder sgretolarsi il futuro roseo che aveva prospettato per la figlia e inizierà ad escogitare ogni tipo di sotterfugio per fare in modo che la ragazza possa trovare il suo posto nel mondo. Quel mondo che, restando in Romania, le sarà precluso. 


Rumore di un vetro in frantumi. Qualcuno ha tirato una pietra e spaccato il vetro di una finestra. Comincia così l'ultimo film di Cristian Mungiu, che arriva a 4 anni di distanza da "Oltre le colline" e che all'ultimo festival di Cannes ha vinto il premio per la miglior regia. Comincia così e fino alla fine ti spinge a credere che stia per succedere qualcosa di brutto, nel senso più tragico del termine, e invece non succede "niente" di eclatante, ma al contempo succede di tutto, in quei pochi giorni che coincidono con le prove scritte degli esami di Eliza, in cui Romeo, padre, preoccupato più per il futuro di Eliza che per Eliza stessa inizia a comportarsi in un modo a lui non consono. Attenzione, non sto dicendo che Romeo è un eroe senza macchia e senza paura, anzi. Alla fine il matrimonio è pura facciata, e il rapporto con la moglie, donna disillusa e al limite dell'abulia non esiste più, al suo posto l'abitudine che vira verso l'insofferenza. Ha una relazione con un'insegnante della figlia, ma anche lì, non capisci cosa provi per questa donna, esempio lampante è la sua (non)reazione all'annuncio da parte di lei di un ritardo del ciclo.  Pare che l'unico scopo nella vita sia regalare un futuro migliore a Eliza. Ma non è chiaro se Eliza sia d'accordo, anzi, facile il contrario. E si osserva Romeo muoversi in una società di persone facilmente corruttibili, di corrotti col pedigree e di corruttori spesso loro malgrado, dove l'aiutino dell'amico che deve un favore all'amico dell'amico è prassi consolidata, perché sì è sempre fatto così, e non si possono cambiare le cose.
O forse sì?


Sembra che Mungiu si limiti ad osservare e descrivere, senza prendere posizione, una realtà dei fatti che non ha bisogno di spiegazioni, e lo fa in maniera asciutta e quasi distaccata, realizzando un film che - almeno apparentemente - è meno potente dei precedenti a livello emotivo, ma che ci mostra un uomo che assiste progressivamente alla sua sconfitta, uscendone a pezzi.
Proprio come quel vetro in frantumi.




9 set 2016

The Zero Theorem
(una recensione che vale zero.
Al 100%)

Senti Terry Gilliam e pensi immediatamente a Brazil, pensi a "And finally, a wafer thin mint...", pensi a "...due a punta, due piatte e un cartoccio di ghiaia per il mio bambino!..." poi, corre l'anno 2013, e senti che Terry Gilliam presenta il suo ultimo film a Venezia. E aspetti fiduciosa.
Ma, complice la solita distribuzione a cazzo col contagocce, The Zero Theorem arriva in sala, in Italia, giusto tre anni dopo. Nel frattempo hai letto cose qua e là, e a "futuro distopico" ti son venute le bolle. Ma il cinema Massimo te lo propone una sera in versione originale,e tu, nonostante il futuro distopico (che nella stragrande maggioranza dei casi è pure dispotico) fai un eccezione e vai al cinema, portando in tasca il tuo sacchettino gonfio di pregiudizi, anche perché l'ultimo lavoro di Gilliam che hai visto era quel Parnassus tristemente rimaneggiato a seguito della prematura morte di Heath Ledger, avenuta durante una pausa delle riprese, e ricordi che eri uscita dalla sala non molto convinta.


Siamo in un posto coloratissimo e caotico che potrebbe ricordare Londra solo per i double-decker, e Christoph Waltz è Qohen Leth (Q - no U - O-H-E-N): paranoico, misantropo, asociale, vive in una chiesa sconsacrata, lavora per la multinazionale Mancom alla risoluzione, assieme a tanti altri, del Teorema Zero. Cerca invano di affermare la sua instabilità mentale per ottenere il permesso di lavorare da casa, permesso che gli verrà accordato soltanto dopo un incontro fortuito con Management, il capo supremo di Mancom, interpretato da Matt Damon in un'inedita versione Karl Lagerfeld.        
Questo desiderio deriva dal fatto che Qohen (Q - no U - O-H-E-N) deve essere a casa per rispondere ad una chiamata telefonica che aspetta da sempre, convinto che quella telefonata sia l'unico modo per trovare le risposte a tutti i suoi perché (chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, ma, soprattutto, troveremo coda?).
La domanda, se l'avesse davvero fatta Qohen, sarebbe la stessa, perché lui, perennemente pervaso di pessimismo e fastidio, parla in prima persona plurale, e quando dice "moriremo tutti", non sta pensando (anche) a te, ma solo a sé stesso. 
Gli verrà affiancata un'intelligenza artificiale, con le sembianze della Dott.ssa Shrink-Rom (Tilda Swinton, nell'ennesimo ruolo eccessivamente caricaturale) e il suo lavoro, verrà interrotto dalle continue visite della bellissima Bainsley (Mélanie Thierry) e da Bob, talentuoso figlio ribelle di Management, che lo metterà in guardia sulla ragazza.
E mentre Qhoen tenta invano di risolvere il Teorema Zero, ma ogni volta “Zero è uguale al 93,789 per cento. Zero deve essere uguale al cento per cento”, le cose precipitano, e la realtà (sur)reale si mischia alla realtà virtuale, tra tramonti da cartolina e buchi neri, sotto il perenne controllo delle telecamere di Management.

The Zero Theorem è un film forse troppo ambizioso e spesso imperfetto, che sembra mettere troppa carne al fuoco, dimenticandosi di toglierla dalla griglia al momento giusto. Ma è innegabile che sia intriso di una sorta di disperazione pop, e che abbia un fascino disperato e decadente.


5 set 2016

Quando il gioco si fa duro buio...

...i lettori de Il Buio in sala iniziano a giocare.

Panorama umbro con lago Trasimeno sullo sfondo
Se non conoscete il buio in sala, e no, Leo Ortolani non c'entra, che dire? Mi dispiace per voi, ecco. Ma potete sempre porre rimedio alle vostre lacune. Oppure continuare a vivere nell'ignoranza. 
Resta il fatto che Giuseppe, il "padrone" del blog, (e se non conoscete neppure lui, vabbè, allora ciao) verso la fine di luglio ipotizzò di radunare, in un luogo X e una data Y (o Z), con il pretesto del suo compleanno appena passato un "raduno" a cui tutti i suoi lettori, fissi e occasionali, non necessariamente cinefili, avrebbero potuto partecipare. Insomma, il più classico dei blog-raduni tanto in voga negli anni passati, . 
Che tra te e te pensi "cazzo poison, c'hai un'età che anche basta con ste robe", che mi ricordo ancora un raduno in spiaggia a Ravenna - nel senso che in spiaggia ci si dormiva pure - il 14 e 15 di agosto, e io che, per tornare a Torino (il 16 avrei lavorato) ho pensato bene di accompagnare a casa degli amici di Padova e sulla strada del ritorno le due corsie dell'autostrada stavano iniziando a diventare quattro...  Questa volta non ci sono state bizzarre quanto improponibili deviazioni di percorso perché a farmi compagnia nel lungo viaggio verso l'Umbria, con me c'erano altri 3 torinesi conosciuti proprio in occasione di questo incontro. 
Siamo partiti all'alba di sabato, e devo ringraziare Roberto che è stato abbastanza puntuale per fare in modo che la partenza non avvenisse all'alba del giorno dopo (Ah. Ah. Ah). Vi ho mai detto che sono una fine umorista cialtrona col botto? Scherzi a parte il viaggio è filato liscio e i miei compagni di avventura mi sono piaciuti molto. Abbiamo in mente di riprovarci. Soprattutto perché l'agriturismo (con piscina) in cui ci ha piazzato Giuseppe è di una bellezza quasi irreale, nascosto tra colline e ulivi. Non ci fossero gli insetti, che ho passato il viaggio di ritorno a tentare di grattarmi strofinando la schiena sul sedile, roba che l'orso di revenant mi fa una pippa, sarebbe un posto perfetto. Ma già così non scherza.



Siccome ho un navigatore poratcho, quando siamo arrivati al paese non abbiamo trovato il numero civico, in compenso abbiamo trovato Aldo, un 97enne meraviglioso, che dimostrava 20anni in meno, lucido, sveglio, spiritoso e gentile. Ci ha raggiunti la mamma di Giuseppe e ci ha scortati lungo strade sterrate che per la prima volta in vita mia avrei voluto avere un pandino 4x4.
Dopo i vari ooooooooooooh, aaaaaaaaaaaaaaah, uuuuuuuuuuuuuuuuh abbiamo preso possesso del nostro appartamentino, abbiamo fatto conoscenza di un po' di gente che è riuscita ad arrivare di venerdì, e siamo tornati in paese a nutrirci (con moderazione). Il paesino, un borgo medievale inserito tra i "borghi più belli d'Italia" è, che ve lo dico a fare, delizioso. Abbiamo pranzato (in una macelleria) con un paio di taglieri accompagnati dalla torta al testo. Quando è stato il momento di andare in bagno siamo andati in Comune, e io questa cosa la trovo semplicemente bellissima.  



Siamo quindi tornati all'agriturismo, e ci siamo piazzati (quasi tutti) a bordo piscina per un paio d'ore. All'ora X siamo saliti in auto e abbiamo raggiunto, quasi senza problemi, sempre grazie al navigatore poratcho, il locale dove si sarebbe svolto tutto. Finalmente sono riuscita a dare un volto e un nome (vero) a persone con cui (qualcuna più, qualcuna meno, qualcuna magari mai) interagisco virtualmente da un sacco di tempo. Ed è una cosa che mi piace sempre davvero tanto. 
Abbiamo riso, giocato (abbiamo anche fatto una figura abbastanza barbina e mi sono resa conto, ma non che avessi dei dubbi, che per quanto riguarda il cinema sono una vera capra) scherzato, parlato, mangiato, bevuto e ancora parlato, e ancora scherzato, e ancora giocato (e ancora fatto una figura barbina, ma fa lo stesso). E, la cosa che più mi è piaciuta è che l'imbarazzo iniziale, che spesso è inevitabile non c'è praticamente mai stato. Si è creata subito un'alchimia quasi perfetta, come fosse un ritrovo tra ex compagni di scuola. E siamo stati bene, molto bene.
E se buona parte del merito è senz'altro del fantastico Giuseppe e di suo fratello  (e di tutti quelli che hanno contribuito a rendere possibile questa cosa, facendo in modo che vitto e alloggio avessero prezzi che definire popolari è riduttivo), un po' è senz'altro anche merito nostro, e della nostra passione per il cinema, che riesce ad accomunare persone diversissime tra loro, per credo politico/religioso, estrazione sociale, situazione familiare, geografica, anagrafica e stocastica, che non c'entra una minchia ma fa un certo effetto, annullando ogni possibile contrasto.




2 set 2016

il clan

s p o i l e r   f r e e

Il clan (titolo originale El clan, e stranamente per una volta non ci siamo sbizzarriti e accaniti con "una famiglia quasi perfetta" o stronzate del genere) è un film argentino (coproduzione spagna-argentina, prodotto da El Deseo di Almodovar) del 2015, diretto da Pablo Trapero, vincitore del leone d'argento lo scorso anno a Venezia, uscito la scorsa settimana nelle sale italiane. 
E io sono andata a vederlo, perché dai trailer mi incuriosiva, come mi incuriosiscono sempre i film tratti da storie vere, a prescindere dal fatto che io le conosca o meno.
Nel caso specifico la storia vera che ci viene raccontata è quella della famiglia Puccio, che, a dispetto del cognome,  non è pucciosa manco p''o cazzo.
Il clan è ambientato in un passato recente, ovvero durante la prima metà degli anni 80, quando l'Argentina era ancora governata dal Proceso de Reorganización Nacional, ovvero dalla dittatura militare autoproclamatasi nel 1976 a seguito di un colpo di stato.



Ed è in questo contesto storico, sicuramente il più buio e tragico del paese, in cui la dittatura cede il passo ad una democrazia che deve fare i conti con la sua storia recente, fatta di arresti illegali, torture, desaparecidos, voli della morte ecc. che Arquimedes Puccio, ex membro della SIDE (i servizi segreti argentini) trovandosi disoccupato, inizia, con altri due complici, la sua carriera da libero professionista del crimine, anche perché i suoi trascorsi lavorativi fanno intuire che se il  rapimento non era il suo pane quotidiano poco ci mancava.
Ma per individuare le potenziali vittime si avvale del primogenito Alejandro, valido giocatore di rugby.
E mentre tu guardi quest'uomo all'apparenza normale nella sua veste di marito e padre, ma nella realtà senza né scrupoli né emozioni (un sociopatico, in poche parole), inizialmente ti viene il dubbio che possa rapire la gente per qualche motivo politico, ma realizzi immediatamente che l'unica cosa che lo spinge ad agire in quel modo sono i soldi.
E quello che più ti "sconvolge" è che tutta la famiglia, ad eccezione forse dei due figli più piccoli, è consapevole di quello che succede, e non fa nulla per ribellarsi a quella situazione, e mentre l'ostaggio di turno urla nel suo nascondiglio in cantina, la madre cucina amorevolmente, il signor Arquimedes aiuta la figlia più piccola a fare i compiti, come nella più classica delle famiglie del mulino bianco, come se l'orrore fosse una componente normale e quasi ovvia della quotidianità della famiglia Puccio.
In un susseguirsi di salti temporali si assiste all'orrore come modus operandi generato esclusivamente
dall'avidità, senza né remore, né morale.
Bravissimo Guillermo Francella che interpreta Arquimedes Puccio.

Arquimedes Puccio

Alejandro Puccio