Sabato, 3 ottobre.
Abbiamo due terzi di viaggio alle spalle, e soltanto una settimana ci separa dal ritorno in Italia. L'anno scorso durante il viaggio in Vietnam avevo avuto la netta sensazione - mai provata in precedenza - che i giorni passassero in maniera fin troppo veloce in una sorta di fast forward: eravamo appena arrivate ed era già ora di tornare a casa, quest'anno per fortuna non è successo e i giorni hanno avuto il buon gusto di susseguirsi a velocità "normale".
Facciamo colazione, paghiamo il conto della lavanderia e aspettiamo il tuk tuk che ci porterà al bus terminal, ringraziamo e salutiamo la signora dell'hotel, che ci accompagna al tuk tuk e rimane sulla strada a salutarci sorridente.
Aspettiamo il nostro autobus mentre inizia a piovere.
Questa volta abbiamo i posti assegnati, il bus è abbastanza pieno e con l'aria condizionata a palla, che ovviamente non si riesce a regolare. Ci imbacucchiamo nelle sciarpe cercando più o meno inuitilmente di dirigere il getto dell'aria il più lontano possibile da noi.
Dopo quattro ore, quando iniziavamo a perdere le speranze, finalmente facciamo una sosta.
La mia vescica ringrazia.
Compriamo anche qualche schifezza da mangiare, tipo dei bellissimi biscottini dalla consistenza - scopriremo poi - un po' gessosa, che ci seguiranno fino a Bangkok e che, dopo averli assaggiati, chiameremo con affetto "gessetti". Torniamo sul bus e la bigliettaia passa a distribuire un pacco di biscotti a testa. Ad averlo saputo (per saperlo sarebbe stato sufficiente leggere il biglietto, ad esempio) avremmo evitato di comprare i gessetti, forse. Poco male, ci serviranno per fare colazione a Bangkok.
Passano un paio d'ore (per un totale di sei) e il bus si ferma. La bigliettaia ci dice che siamo arrivate ad Ayutthaya, e che dobbiamo scendere. Nella mia enorme ignoranza, mi ero fatta l'idea che Ayutthaya fosse un paesino piccolo e carino, tutto concentrato attorno al parco storico.
Sbagliavo.
Pensavo anche che il bus si sarebbe fermato al terminal degli autobus, nel paese.
Ma sbagliavo ancora.
Siamo su una strada a scorrimento veloce, in piena periferia, e, vista da qui, Ayutthaya ha lo stesso fascino di una qualsiasi città attraversata da una tangenziale. Insomma, sembra di essere al fondo di Corso Orbassano (per i Torinesi) o di Viale Fulvio Testi (per i Milanesi), praticamente in mezzo al niente intervallato da brutte costruzioni di cemento.
Però c'è il sole e fa caldo. Molto caldo.
Realizzato che non siamo alla stazione dei bus, ce ne facciamo in qualche modo una ragione, anche perché non abbiamo altre opzioni, e raggiungiamo una pensilina dove stazionano un po' di uomini che sembrano tassisti. Vedendoci arrivare con due valigie non fanno una piega e non ci degnano di uno sguardo.
Ci sediamo un attimo e io mi accendo una sigaretta. Uno degli uomini sembra improvvisamente essersi accorto di noi e ci chiede se dobbiamo andare da qualche parte. No, figurati, volevamo star qua ferme sul bordo di una superstrada assolata per un paio d'ore, sai com'è. Si offre di portarci al B&B in moto. Col famoso senno del poi forse ci conveniva accettare.
Gli diciamo che in moto non ci sembra il caso, e che preferiremmo un taxi. Allora lui chiama uno degli uomini di prima, io "esco" la prenotazione del B&B - stampata in thai - e li sento dire "ban boonchu" "aaaah, ban boonchu", e poi arrivano tutti gli altri, ognuno ripete "ban boonchu", tutti conoscono la strada ma sembra che nessuno abbia intenzione di muovere il culo per portarci. Ricevo un paio di complimenti per i tatuaggi, il foglio della prenotazione passa di mano in mano, è tutto un "ban boonchu" con - immagino - le indicazioni per la strada più veloce per arrivarci, e, alla fine, il viaggio lo vince un tizio che sembra la versione thai di Danny Trejo: trucidissimo, con catenazza d'oro al collo, capelli unitissimi ma, soprattutto, che non parla/capisce non solo l'inglese, ma nemmeno il linguaggio dei gesti.
Partiamo, e, dopo quasi mezz'ora di marcia arriviamo nella via del nostro B&B, ovvero il Ban Boonchu.
La via è una strada con due carreggiate, una per senso di marcia, su cui si aprono, a sinistra e a destra, strade perpendicolari con lo stesso nome contraddistinte dal numero progressivo. A sinistra i numeri dispari, soi 1, soi 3, soi 5 ecc, a destra i numeri pari, soi 2, soi 4, soi 6 e via così.
Noi dobbiamo andare al soi 4, ma siamo sul lato della strada dei soi dispari. Il tassista si guarda intorno, spaesato. Noi cerchiamo di fargli capire che il Ban Boonchu è dall'altra parte della strada, quindi deve soltanto arrivare al fondo della via in cui siamo adesso e tornare indietro (vedi immagine sotto, con percorso verde indicato).
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Facile, no? |
L'avessi spiegato al mio gatto ci avrebbe portati a destinazione in 45 secondi.
E invece.
Lui non capisce una mazza fionda, arriva al fondo della strada, e, invece di fare inversione e risalire, gira a sinistra.
Il mio sguardo assume l'espressione da "ma che cazzo fai?" mentre io e la bionda ci guardiamo, incredule.
Si ferma. 1*
Scende dalla macchina.
Va a parlare con qualcuno, che gli spiega... la teoria della relatività, probabilmente. Risale in macchina. Fa un giro assurdo e dopo cinque minuti siamo al punto di partenza. Io e la bionda ci guardiamo, e cerchiamo nuovamente di fargli capire, a gesti, che dobbiamo andare "di là", trovandoci di fronte al vuoto cosmico.
Fa un altro giro a vuoto.
Poi un altro ancora.
Noi dietro a sbracciarci indicandogli la direzione.
Inutilmente.
Si ferma ancora. 2*
Ferma due ragazzini a piedi, e chiede loro qualcosa (presumibilmente il risultato della partita Chonburi-Suphanburi). Questi ci guardano, si guardano, ci riguardano, pensano si tratti di uno scherzo, poi prendono il foglio della prenotazione che gli sporgiamo e iniziano a dare indicazioni.
Il nostro uomo fa per ripartire, ma si capisce chiaramente dalla sua espressione che o non ha capito, o non ha ascoltato, o tutte e due, fa il giro delle sette chiese, si allontana di tipo cinque km per poi tornare, indovinate? al punto di prima. Mi verrebbe voglia di scendere dalla macchina, dargli una pappina sul coppino e mettermi a guidare il suo taxi. Ma nel frattempo lui si è fermato.
PER.
LA.
TERZA.
VOLTA. 3*
Gli facciamo il segno del telefono, indichiamo il numero sul foglio, gli diciamo di chiamare il B&B. Lui sembra capire (sto cazzo), prende il telefono, cambia gli occhiali, e lo osserva.
Il telefono, non sto cazzo.
Posa il telefono, ricambia gli occhiali e spegne la macchina.
E resta lì. Immobile. Senza parlare, senza guardarci.
Noi due iniziamo a non poterne più, siamo in quel cazzo di taxi da UN'ORA, quando mezz'ora fa avremmo potuto scendere, attraversare la strada e raggiungere il Ban Boonchu, ma ormai è una questione di principio. Ci deve portare lì davanti.
Alla fine sembra aver capito, rimette in moto, compie l'ennesimo inutile giro dell'isolato e poi, come per incanto, riesce a centrare - credo per puro caso - il famoso Soi4 in cui si trova il nostro bed & breakfast.
Mentre ci porge le valigie e noi gli diamo i soldi, ringraziando il cielo di aver pattuito il prezzo prima e di non avergli chiesto di azionare il tassametro, ci sorride.
Io a quel punto non avevo più nemmeno la forza per incazzarmi, e avevo iniziato a ridere come una cretina.
(Per la cronaca, Chonburi-Suphanburi è finita 2 a 2).
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Come stare un'ora su un taxi. |