7 set 2015

Taxi Teheran

Metti mai che, lasciando invariato il titolo originale (ovvero semplicemente "Taxi") uno si confonda e entri in sala pensando di salire su Lima14 in 4 minuti  e farsi portare a fare in culo fin sotto casa, noi ci aggiungiamo Teheran, e il gioco è fatto. Non c'è rischio di confondersi. C'è il taxi, si, ma è lontano, dove minchia è Teheran poi? In Libano? In Iraq? Ah, in Iran? Ma sì, vabbè, fa lo stesso, tanto son tutti uguali, no? 
NO.
Come dicevo qualche giorno fa, io non ho nessun valido motivo per lamentarmi di qualcosa, e, appena si sono accese le luci in sala, dopo la visione di Taxi, quando sullo schermo compaiono le parole di Jafar Panahi che, prima di ringraziare tutti quelli che l'hanno sostenuto e senza i quali realizzare quest'opera sarebbe stato impossibile appare la frase "il Ministero della Cultura e dell'Orientamento Islamico approva i titoli di testa e di coda dei film. Con mio grande rammarico, questo film non ha titoli", l'unica frase che sono riuscita a dire è stata "come sono fortunata". 
Come ci dice il titolo, l'ultimo lavoro di Jafar Panahi è girato interamente in un taxi, che si muove per le strade di Teheran, alla cui guida c'è lo stesso Panahi, che, con una telecamera piazzata sul cruscotto, accoglie sull'auto passeggeri più o meno ignari di essere ripresi, ognuno a mostrarci uno spaccato della vita in quel paese, così vera da sembrare irreale: dal borseggiatore professionista moralista che vorrebbe la pena di morte per i ladri (genio) allo "spacciatore" di dvd piratati (oltre che proibiti) che - riconosciuto il regista - si considera in qualche modo un suo collega, alle due bisbetiche signore con pesce rosso al seguito, che Panahi trasferisce su un altro taxi perché deve recuperare la nipotina a scuola.
La ragazzina deve girare un film per la scuola, e per farlo deve attenersi a regole ben precise perché "me l'ha detto la maestra", ma è la prima a capire che in tutte quelle regole c'è qualcosa che non torna. 
Taxi, che ha vinto l'orso d'oro all'ultimo festival di Berlino (e dove, per l'ennesima volta Panahi non ha potuto esserci per ritirare l'ennesimo riconoscimento alla sua "scomoda" carriera) non è un film nel vero senso della parola, e, se fosse un film (normale), sicuramente non sarebbe neanche un "bel" film. 
Ma, sapendo qualcosa della storia di Jafar Panahi, Taxi diventa un film importantissimo, oltre che un messaggio di amore per il cinema, realizzato da uno che il cinema lo ama ma, proprio perché vive in Iran, non lo può fare, nonostante il cinema sia il suo lavoro. 


12 commenti:

  1. Infatti lo è, e si capisce benissimo soprattutto durante uno scambio di battute tra Panahi e un cliente dello spacciatore di DVD...

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  2. Secondo me vivere da quelle parti procura tali e tanti cortocircuiti mentali che ad un ladro pare ovvio invocare la pena di morte per i ladri,,,, E sì, siamo fortunate, e comunque qualsiasi abitante di Teheran si considererà fortunata rispetto alle migliaia di schiave sessuali in mano all'isis e via andare, anche il concetto di fortuna è relativo.

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    1. Ah, quello senz'altro... in ogni caso ribadisco la mia (tua, nostra) fortuna... :)

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  3. Panahi è un grandissimo.
    Spero di recuperarlo presto.

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  4. Solo io
    Mi sono annoiata a morte ?

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    1. Non saprei, certo non succede praticamente niente e non c'è una storia, quindi la noia ci può stare.

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  5. alla fine ci troviamo d'accordo. se fosse un film normale non sarebbe neanche un bel film è una frase che riassume perfettamente quello che penso. e lo dissi da Berlino. ops, sai che sono stato a Berlino?

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    1. La prossima volta ti accompagno io a Berlino, così verifico quel che vai dicendo, sborone :-D. Vi ho forse già detto che sono a Venezia con l'accredito? :-)))))))))

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    2. Ma pensa. Meno male che tu non sei uno sborone come quell'altro tuo amico che dice di essere stato a Berlino, altrimenti non perderesti occasione per ricordarcelo!!! :P

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