Ieri sera consegna dei documenti di viaggio.
Con l’occasione è stato organizzato un aperitivo in un bar cittadino in modo che i partecipanti al viaggio potessero conoscersi prima della partenza. Non vedevo l’ora. Sua bionditudine si è data, lasciando a me l’ingrato compito.
Arrivo – in anticipo nonostante l’attraversamento di piazza Statuto – al luogo X, parcheggio, e, mentre il caro Max mi intrattiene piacevolmente al telefono, osservo la prima coppia di pensionati. A malincuore saluto Max e mi avvicino. Mi chiedono “Namibia?”. Annuisco. Ci presentiamo. Non ricordo un nome che sia uno. A malapena qualche faccia.
A parte un bimbo di circa 9/10 anni (che io mi chiedo: ma i genitori gli fanno perdere due settimane di scuola?) io e s.b. abbassiamo l’età media, e questo la dice lunga sul resto della comitiva. Sembra il soggiorno estivo di Villa Mariuccia. Una prevalenza di carampane in preda all’eccitazione, che chiede di tutto, di più.
Da quanti soldi bisogna portarsi, a come bisogna vestirsi, se devono mettere la marca da bollo sul passaporto e via di questo passo. Quando viene comunicato che si viaggerà su dei fuoristrada e che sarebbe meglio avere un bagaglio morbido, un sommesso brontolio di sottofondo unito a “ma in aereo te lo rovinano!” (segnale evidente che la madaminchia in questione non ha mai visto con quanta delicatezza vengano trattate le valigie rigide) fa capire che lunedì, al check in, sarà un tripudio di Samsonite in lega di titanio e carbonio.
E va bene che stai andando nell’Africa “selvaggia”, ma, se posso darti un consiglio, quell’inguardabile giacca zebrata io la lascerei a casa.
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