E così anche questo 29° TFF si è concluso.
E io ho concluso la mia settimana di lavoro part-time. L’anno prossimo cercherò di organizzarmi meglio e, nella settimana del Festival, vedrò di prendere ferie. In modo da riuscire a fare le cose con un po’ più di calma… Tutto sommato è andata bene, ho visto cose interessanti e quest’anno sono pure riuscita a vedere il film che ha vinto (e che mai avrei immaginato potrebbe vincere, ma si sa, io capisco poco).
Ma andiamo per ordine.
Venerdì ho ritoccato i miei programmi iniziali e sono riuscita ad andare a pranzo al ristorante giapponese con tutta la calma del caso, cosa che solitamente, dovendo fare la lotta con la timbratrice non avviene, e mi ritrovo ad ingoiare nigiri come noccioline all’ora dello spritz.
Come sempre prendo la metro e arrivo al cinema. Ho tempo, e ne approfitto per un buon caffè, che quello del ristorante giapponese non è proprio il massimo, diciamocelo.
Prendo posto in sala per 388 Arletta Avenue.
Che è un film bello. Inquietante ed angosciante al pungo giusto. Forse il più inquietante visto finora. Dello stessa regista, Randall Cole, avevo visto, nel 2008, “Real Time”. La vita di una coppia normalissima viene sconvolta da uno psicopatico che non avrai il piacere di vedere in faccia nemmeno per un secondo, ma potrai vedere quello che succede attraverso il punto di vista del maniaco, tramite le telecamere da lui piazzate sapientemente qua e la nell’abitazione delle due povere vittime inconsapevoli. Brrrrrrrrr.
Arriva il momento di 50/50, interpretata da Joseph Gordon Levitt (già apprezzato in Inception), gradevole prodotto che riesce a far sorridere parecchio nonostante il tema trattato sia drammatico. Adam scopre di avere una grave forma di cancro, e, appreso che la percentuale di guarigione è del 50% affronta la malattia aiutato dall’amico Kyle, da una terapeuta alle prime armi e da una madre ansiosa ed invadente. Forse un po’ prevedibile (che la fidanzata storica sia abbastanza stronza lo si capisce alla prima inquadratura, ad esempio) e con un finale che io probabilmente avrei lasciato in sospeso, ma, tutto sommato, mi è piaciuto. E ad un certo punto mi è pure scesa, a tradimento, la lacrimuccia.
Ecco, l’ho detto.
The Descendants è l’ultimo lavoro di Alexander Payne, (A proposito di Schmidt, Sideways) e ci trasporta alle Hawaii, dove Matt King (George Clooney) ricco proprietario terriero (discendente di una famiglia che ha fra i suoi antenati addirittura un re dell’arcipelago), marito distratto e padre assente, è alle prese con la vendita di un terreno di inestimabile valore, quando la moglie, in seguito ad un incidente in motoscafo, entra in coma irreversibile. L’uomo si troverà a doversi confrontare con la nuova realtà, tentando di costruire un rapporto inesistente con la figlia minore, e abbastanza conflittuale con Alexandra, la figlia adolescente. Dalla quale scoprirà che la moglie lo tradiva. Bravissima Shailene Diann Woodley nei panni di Alexandra. ll film, in uscita a febbraio, è interessante.
A parte una fastidiosissima colonna sonora, che la musica hawaiana non è esattamente la mia preferita, ecco.
E io ho concluso la mia settimana di lavoro part-time. L’anno prossimo cercherò di organizzarmi meglio e, nella settimana del Festival, vedrò di prendere ferie. In modo da riuscire a fare le cose con un po’ più di calma… Tutto sommato è andata bene, ho visto cose interessanti e quest’anno sono pure riuscita a vedere il film che ha vinto (e che mai avrei immaginato potrebbe vincere, ma si sa, io capisco poco).
Ma andiamo per ordine.
Venerdì ho ritoccato i miei programmi iniziali e sono riuscita ad andare a pranzo al ristorante giapponese con tutta la calma del caso, cosa che solitamente, dovendo fare la lotta con la timbratrice non avviene, e mi ritrovo ad ingoiare nigiri come noccioline all’ora dello spritz.
Come sempre prendo la metro e arrivo al cinema. Ho tempo, e ne approfitto per un buon caffè, che quello del ristorante giapponese non è proprio il massimo, diciamocelo.
Prendo posto in sala per 388 Arletta Avenue.
Che è un film bello. Inquietante ed angosciante al pungo giusto. Forse il più inquietante visto finora. Dello stessa regista, Randall Cole, avevo visto, nel 2008, “Real Time”. La vita di una coppia normalissima viene sconvolta da uno psicopatico che non avrai il piacere di vedere in faccia nemmeno per un secondo, ma potrai vedere quello che succede attraverso il punto di vista del maniaco, tramite le telecamere da lui piazzate sapientemente qua e la nell’abitazione delle due povere vittime inconsapevoli. Brrrrrrrrr.
Arriva il momento di 50/50, interpretata da Joseph Gordon Levitt (già apprezzato in Inception), gradevole prodotto che riesce a far sorridere parecchio nonostante il tema trattato sia drammatico. Adam scopre di avere una grave forma di cancro, e, appreso che la percentuale di guarigione è del 50% affronta la malattia aiutato dall’amico Kyle, da una terapeuta alle prime armi e da una madre ansiosa ed invadente. Forse un po’ prevedibile (che la fidanzata storica sia abbastanza stronza lo si capisce alla prima inquadratura, ad esempio) e con un finale che io probabilmente avrei lasciato in sospeso, ma, tutto sommato, mi è piaciuto. E ad un certo punto mi è pure scesa, a tradimento, la lacrimuccia.
Ecco, l’ho detto.
The Descendants è l’ultimo lavoro di Alexander Payne, (A proposito di Schmidt, Sideways) e ci trasporta alle Hawaii, dove Matt King (George Clooney) ricco proprietario terriero (discendente di una famiglia che ha fra i suoi antenati addirittura un re dell’arcipelago), marito distratto e padre assente, è alle prese con la vendita di un terreno di inestimabile valore, quando la moglie, in seguito ad un incidente in motoscafo, entra in coma irreversibile. L’uomo si troverà a doversi confrontare con la nuova realtà, tentando di costruire un rapporto inesistente con la figlia minore, e abbastanza conflittuale con Alexandra, la figlia adolescente. Dalla quale scoprirà che la moglie lo tradiva. Bravissima Shailene Diann Woodley nei panni di Alexandra. ll film, in uscita a febbraio, è interessante.
A parte una fastidiosissima colonna sonora, che la musica hawaiana non è esattamente la mia preferita, ecco.
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