Ho patito.
Ho patito molto.
Non la lunghezza del film, che dura più di due ore, ma che sono passate senza che io abbia guardato una sola volta l’orologio (come solitamente faccio).
Non la violenza del film, che inizia con un’ultravioletta carneficina in un solarium e prosegue raccontando le vicende della famigerata faida di Scampia, tra affiliati al clan Di Lauro e scissionisti, nel desolante panorama delle vele, dove vive Don Ciro, che tutte le settimane porta i soldi alle famiglie, e dove vive anche Totò, un ragazzino che vuole entrare in quel mondo e ci riuscirà, partendo dal rituale di iniziazione e finendo per attirare in trappola la sua amica Maria, colpevole del fatto che suo figlio è diventato scissionista.
Non ho patito nemmeno le vicende di Franco (Servillo), e del suo traffico di rifiuti tossici e nocivi, né la storia di Pasquale, sarto che si ritrova a dover lavorare giorno e notte per far fronte agli impegni presi dal suo padrone nelle aste al ribasso per la confezione di abiti di alta moda, né quella di Marco e Ciro, due ragazzi (un po’ teste di cazzo, diciamocelo) che vogliono essere “indipendenti” e sognano di vivere come Toni Montana.
No. Ho patito i due ragazzi seduti davanti a me, che per tutto il film hanno tenuto il cellulare in mano scattando foto e mandando messaggi, ma, soprattutto, il signore seduto di fianco a me, che sembrava caduto in una pozzanghera di dopobarba fetentissimo e mi ha costretto a vedere il film con un fazzoletto sul naso.
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